lunedì 7 marzo 2011

Umano, troppo umano

Inizio questa riflessione partendo da un post di Umberto Galimberti che qui riporto per intero ma comunque visibile al link http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/e-se-cambiassimo-punto-di-vista
Il titolo del post è : "E se cambiassimo punto di vista?":
Scrive Platone nelle Leggi (903 c) “Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso. E, anche se tu non ti accorgi, non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica”.

Per me l’uomo va visto e va definito stando d’altra parte dell’universo; va collocato e idealmente confrontato con il tempo e la dimensione del cosmo! Sì, perché qualsiasi descrizione si voglia fare, a una distanza intermedia, non sarebbe mai idonea perché parziale, limitata, orba. Ancor meno è sensata una descrizione antropocentrica.  Che attendibilità, infatti, ha una descrizione del mondo fatta dal chiuso della propria casa?
Perciò, una volta arrivati d’altra parte, e solo allora, ci si potrà disporre finalmente a ricercare e a ritrovare quell’uomo perduto e lontano, quell’uomo sperso e ormai praticamente invisibile: “Egli sarà pure da qualche parte, in una direzione qualsiasi, forse nascosto dallo splendore di una stella nascente o da una qualche nube galattica...?”.
Mi ripeto: è da lì, e solo da lì, di fronte a quello spettacolo d’immane e maestosa grandezza, a quell’esplosione del “Tutto”, che si dovrà finalmente iniziare il ritorno. Solo allora l’uomo potrà finalmente vedersi nella sua reale dimensione e apprezzarsi come quello straordinario sussulto che, a suo modo, “brilla” al pari, se non più, di un’intera galassia. Solo allora potrà sinceramente amarsi senza presunzione e tracotanza sia nella sua estrema fragilità e finitezza che nella sua fantasmagorica avventura esistenziale. Solo dopo essersi “terapeuticamente” umiliato, marginalizzato e aver portato allo stremo ogni possibile rivoluzione copernicana, l’uomo potrà veramente rifondare la sua esistenza e riappropriarsi del suo destino.
Dice Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.  E io, uomo d’oggi, molto (!) modestamente aggiungo che il cielo non è solo sopra di me perché io sono nel cielo. Noi siamo gocce di cielo nel cielo e il cielo è il nostro mare! È così che penso che partendo da questo profondissimo sentire, possa rinascere una nuova e potentissima morale più rispettosa dell’uomo e del suo meraviglioso mondo “celeste” e dell’uomo, in quanto “goccia”, nel mondo, in quanto “mare”.Carlo Mattei, Napoli
Quello che lei disegna è il senso dell’uomo sulla Terra, al didi tutte le rappresentazioni religiose che fanno dell’uomo il centro dell’universo. Tutti infatti conoscono quella frase orgogliosa di Pascal (Pensiero 264): “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l’universo non sa nulla”.  Nessuno, invece, si prende mai cura di ricordare quell’altra considerazione abbastanza angosciata sempre di Pascal (Pensiero 205): “Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento”.  È lo spavento, in una visione cosmica, dell’insignificanza dell’uomo sulla Terra, a cui Platone in parte allude nella frase che abbiamo citato in apertura e su cui torna Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza.  Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui”.
Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l’importanza della vicenda umana nell’economia dell’universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell’uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l’amore, che è poi l’unica cosa che giustifica l’esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere. Questo pensiero ci sfiora in occasione della morte di quelle persone, a noi vicine, che davano senso alla nostra vita. Custodiamo questo pensiero" Umberto Galimberti.

Ora questo punto di vista potremmo chiamarlo Eterocentrismo (contrapposto ad Antropocentrismo) oppure Post-Umanesimo ( in cui per umanesimo si intende quel pensiero che mette l'uomo al centro della vita).
Ma è veramente possibile un post-umanesimo, ovvero una nuova rivoluzione copernicana nel campo della filosofia che riporti alla dimensione di parzialità, possibilità, transitorietà il super-uomo che ha tanto trionfato negli ultimi secoli? 
E' veramente possibile fare un' operazione di ridimensionamento dell'importanza umana analoga a quella che è stata fatta con l'importanza di Dio? Così come il processo storico di secolarizzazione ha portato all'affermarsi delle società cosidette laiche sono pensabili società deumanizzate o meglio ricondotte a uno stato naturale in cui tutte le parti hanno il giusto peso?
Per rispondere a queste domande prendo in causa alcuni brani di un libro di Leonardo Sciascia : "Todo Modo",  in cui, sullo sfondo degli intrighi politici dell'Italia della prima repubblica, prende corpo il confronto tra un razionalista laico e un prete, Don Gaetano, campione della teologia cristiana.

Don Gaetano:"... il secolo diciannovesimo... sarà l'epoca, o almeno il principio dell'epoca più cristiana che il mondo può conoscere.... Tutto concorre, tutto ci aiuta; anche tutto ciò che [..]crediamo nemico. Ci aiuta la scienza, ci aiuta la sazietà; così come ancora, si capisce, ci aiutano l'ignoranza e la fame... Pensi: la scienza... l'abbiamo combattuta tanto!  E infine che scruti la cellula, l'atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto che divida che faccia esplodere che mandi l'uomo a passeggio sulla luna: che fa se non moltilicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all'universo?"
Laico:" Non mi pare che sia preso da questo spavento l'uomo di oggi. Al contrario."
Don Gaetano:"E' tanto indaffarato a spostare i confini, come dopo una guerra vinta, che ancora non lo avverte; ma le incrinature già ci sono, da cui si insinuerà lo spavento. E lo spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l'uomo avrà di se steso e degli altri... Ricorda? E sempre lo contraddico finchè non comprenda che è un mostro incompresibile; e poichè come non mai oggi Dio ci contraddice ..."
l'altro: " Noi fuggiamo da dio"
D.G.: " Non c'è fuga da Dio, non è possibile. L'esodo da Dio è un marcia verso Dio".

Prendo queste parole a modello per analizzare la critica di chi pensa di compiere un'operzione rivoluzionaria nel ribaltare la centralità dell'uomo. A mio parere, essa incorre nello stesso errore di chi crede di poter argomentare contro Dio e non si accorge che così facendo ne affrema la centralità e  la necessità di essere perlomeno pensato.
Proprio perchè l'A-teismo non avrebbe senso se venisse espresso dalla sola lettera iniziale A ma ha bisogno del restante teismo per esplicitarsi, allo stesso modo qualsiasi critica all'uomo non può prescindere dal fatto che è lo stesso uomo a criticarlo; osservato e osservatore coincidono. Ribaltare il punto di vista sull'uomo, come propone Galimberti, non è altro che pensare in negativo le forme di costruzione della realtà proprie della mente, conformate dal binomio inscindibile: natura e cultura.
Nel terzo millennio si assiste al proliferare di profezie su scenari catastrofici (la fine del mondo, i surriscaldamento) che sono ben al di là delle previsioni elaborate da climatologi, geologi e altre categorie di scienziati.
Come mai l'uomo bio-tecnologico con tutti i suoi mezzi si sente sul baratro? Forse le incrinature di cui parla Don Gaetano si fanno sentire? Il progresso sembra portarci a derive della società, dell'ambiente, della natura che non rispecchiano propriamente l'auspicato mondo del benessere ?
E così diventiamo tutti inquisitori ecologisti, sociaisti, no-global.... Ma non inventiamo niente, rovesciamo solamente tutto.

"L'uomo è misura di tutte le cose" diceva Protagora, oggi è vero più che mai.
In quest'ottica  il candore del Candide di Voltaire vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, azzarda Don Gaetano nel romanzo. Ereticamente ragionando si può concludere che Nietzsche e Sade non sono meno cristiani di Papa Ratzinger; lo sono, con parole diverse; così come, a parole, sono diversi il Sole e le stelle.
Non si può dire se l'uomo sia reltà o invenzione, si può solo dire che in qualunque forma, ontologica o fenomenica, postuliamo la sua esistenza in essa è intrinsecamente neccessario postulare l'esistenza dei suoi poli: Dio e la bestia.




L'unico Post-Umano possibile è quello senza Uomo

domenica 20 febbraio 2011

La morte, forse ciò che più fa paura all' uomo.
Una paura assai strana, perché è pensiero assai lontano dai mille pensieri, eppure ecco che talvolta diviene pensiero centrale che ci tormenta o affascina.
La morte è uno dei temi maggiormente trattati dai poeti, dai filosofi, dagli scienziati. Ancora più che la vita forse.
La morte, che tutto ci porta via e grazie alla quale tutto continua.
In vero, può essere considerata anche una vita, la morte.
Utilizziamo il termine morte molto più di quello che immaginiamo; diciamo di morire quando una parte di noi vuole dimenticare tutto ciò che è passato per rinascere in nuova forma, in nuovo contenuto.
La morte in tal modo diviene l’ unica via di uscita, la tappa fondamentale per uccidere l’ io attuale che odiamo o che rinneghiamo o che semplicemente non ci aggrada e giungere al traguardo successivo della rinascita. La rinascita in qualcosa di nuovo nello stesso qualcuno. Un nuovo io per andare avanti.
Ma la morte reale, la morte che è la conclusione della vita che conosciamo, non di quella che non conosciamo, è un evento con il quale prima o dopo dovremo fare i conti. In prima persona.
È l’ unico appuntamento certo che ogni uomo avrà con una donna, supponendo che la morte sia femmina.
È  comunque l’ unico appuntamento certo che abbiamo, di cui non dobbiamo dubitare anche se vorremmo tanto farlo. E non ci serve agenda o diario perché anno, data, ora rimangono a noi sconosciuti in modo inequivocabile.
Sarà il momento più opportuno? O il meno opportuno?
Sarà in un momento in cui supponiamo di meritarcela o desideriamo di meritarcela? Sarà l’ attimo della vita che più di ogni altro volevamo essere attaccati alla vita?
È buffo ma non sappiamo nulla.
È la cosa che più ci coinvolge, che più ci tocca e noi non abbiamo diritto di sapere alcuna cosa.
E’ forse entità spaccona o dolce attesa?

È la vita che definisce il significato della morte.
E se qualcuno ci dicesse di associare un colore al concetto di morte? Quanti direbbero qualcosa di diverso dal nero o al limite dal grigio.
Un sentimento? Quanti direbbero qualcosa diverso dalla tristezza e dalla malinconia.
Siamo troppo ancorati ad una apparenza di vita che ci fa vedere al morte più nera e più cupa di quello che è.
Che tutto finisca o che tutto inizi dopo la morte cambia il significato della stessa. È più appagante e consolatorio il pensiero di un lieto prosieguo fatto di luce, odori piacevoli e purezza. Ma se tutto finisce?
Se tutto finisce vorrà dire che è stato quel che è stato. Né più né meno.
È proprio questo il pensiero che ci dovrebbe spingere a rendere questa vita unica e meravigliosa, degna di essere vissuta insomma.
Non a discapito degli altri.
Non a discapito di se stessi.
La cosa più ardua è infatti cercare di vivere una vita meravigliosa senza sormontare altrui persona e godere di qualcosa senza privarla ad altri.
Siamo così gelosi dei nostri attimi di felicità perché ognuno tiene per se quello che trova.
La vita non sarà mai meravigliosa se non condivisa, durerà la razza che possiede il più elevato altruismo asseriva Jack London.
La morte volente o nolente ci attende o noi attendiamo lei; l’ incontro sarà inevitabile dopotutto.
Seneca citava: ascoltami: verso la morte sei spinto dal momento della nascita. Su questo e su pensieri del genere dobbiamo meditare, se vogliamo attendere serenamente quell’ultima ora che ci spaventa e ci rende inquiete tutte le altre.
Meditare dice Seneca, non tormentarci.
Questo discorso di morte è suscitato da uno dei lavori di Tim Burton: “La Sposa Cadavere”; una delle favole meravigliose del regista americano che tratta a suo modo questa tematica. Un modo eccentrico, curioso, fuori dal coro, semplice e contorto come un incubo. Come un sogno.
Un mondo triste e grigio in contrapposizione ad una aldilà colorato, allegro e spensierato.
Cito per concludere le parole di Burton che lasciò in un’ intervista relativa al suo lungometraggio…
“ Risale alla mia infanzia, quando sentivo che tutto ciò che si definisce “normale” non lo è affatto, e neppure ciò che si definisce “anormale”. Sono cresciuto nell’ America suburbana, dove la gente ha paura della morte, ed esistono culture, come la messicana, in cui si celebra il Giorno dei morti, ed è una festa così divertente, con gli scheletri che fanno cose bizzarre, e io mi sono reso conto che era quello il luogo in cui preferivo stare. Inoltre la morte fa parte del ciclo della vita, e se non si è pessimisti nei suoi confronti, per quanto sia triste, la puoi pensare in termini di spiritualità e speranza, e in qualche modo di mistero e bellezza. È questo il tema che avevo in mente: il mondo dei vivi che è più morto del mondo dei morti, una sorta di gioco di giustapposizioni, di quei sentimenti che ricordo di aver vissuto sin da molto piccolo “.

Ancora, qua, in queste pagine potete lasciare il vostro commento da cui deriva la bellezza della riflessione, del confronto, della meditazione, della libertà di dire la propria.
Grazie

sabato 19 febbraio 2011

Analisi di un'icona di eleganza e sensualità

Questa a lato è la locandina cinematografica del celebre film con Audrey Hepburn: Breakfast at Tiffany's (Colazione da Tiffany).
E' una locandina disegnata particolarmente efficace nel rappresentare l'immagine di Holly Golightly, la protagonista del film: una ragazza bella ed eccentrica che si mantiene facendo la prostituta d'alto borgo nella New York degli anni '60.

All'interno di una cornice dai vivaci colori pastello, si estende, per quasi tutta la verticale, la shilouette di Audrey dominata dalla tinta nera del vestito. Ad essa si contrappongono: sulla destra, nella parte bassa il titolo del film; più in alto una scena del film con i due protagonisti che si baciano sullo sfondo dei palazzi grigi di una città sotto la pioggia.

Ciò che colpisce particolarmente è questa straordinaria immagine di conturbante femminilità ottenuta senza l'ombra di volgarità ma con una serie di stratagemmi simbolici.
Infatti, il vestito nero che copre buona parte del corpo delineando un profilo snello e sinuoso, lascia intravedere poco più che uno spicchio della gamba destra. Anche le mani e le braccia sono foderate da guanti molto lunghi.
Di contrappunto nella parte alta del corpo, dal collo in su, si raccolgono un gran numero di dettagli ed elementi significativi.

I gioielli di Tiffany, per prima cosa, svolgono la duplice funzione di richiamare lo sguardo con lo scintillio e di esibire un simbolo di ricchezza e potere.
L'attenzione può quindi posarsi sui tanti particolari che circondano o sono parte di un viso dai tratti delicati.
Ci sono labbra di una bocca con un deciso rossetto che stringono un lungo bocchino nero.
Poi c'è un gatto appollaiato fra spalle e collo, e accarezzato dalla bella Audrey con la mano destra.

Le labbra rosse, il bocchino, il gatto.

La lunghezza del bocchino non ha altra funzione essenziale se non quella di estendere la sigaretta .
E' questo propriamente un evento fallico, un gesto di potenza maschile.
Inoltre la lunga cannuccia si va ad insinuare in una bocca dalla vivida tinta purpurea.
A tal proposito è curioso sapere che il rossetto nasce tra Mesopotamia ed Egitto già 5000 anni fa con la funzione di ricreare, sulle bocche dei defunti, il colore arrossato dell'organo sessuale femminile eccitato.

Infine il gatto. Considerate che la locandina è stata pensata prima di tutto per un pubblico di lingua inglese e che il nome affettuoso riservato ai gatti in questa lingua è pussy. Molti sanno che pussy ha anche un'altro significato e cioè figa.

Facendo un parallelo è come se gli americani chiamassero micia l'organo sessuale femminile.
La locandina equivalente per l'italiano sarebbe quella con una Audrey Hepburn attraversata sulla spalla da una bella passera.

Nel complesso abbiamo un oggetto fallico che penetra far due arrossate labbra mentre una sinuosa micia si muove dietro al collo gustandosi la scena; il tutto condito da tanti scintillanti gioielli che impongono di guardare in quella zona.

Gli autori della composizione hanno posto, in maniera quasi subliminale, degli elementi con un forte significato erotico, elementi richiamanti nella mente dell'osservatore attraverso i nessi associativi simbolici e letterali.

Chi ha elaborato questa figura ha creato un'apparenza di compostezza e candore e poi vi ha incastonato in maniera velata, come tanti preziosi, ciò che veramente di prezioso custodisce una donna.


Con astuzia, senza farsi scoprire mostrare ciò che scatena le pulsioni più profonde ... E' forse questo il segreto della sensualità femminile?

sabato 12 febbraio 2011

parole

"Andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto"
Così citava Henry David Thoreau nel suo Walden, ovvero La vita nei boschi.
Una frase può raccogliere il significato che qualcuno ha della vita; due righe di parole possono esprimere quella vita.
Il pensiero di Thoreau esplica la vita.
Voglio a mio modo interpretarlo.
Andai esprime la volontà del nostro essere di adoprarsi a muoversi, muovere quelle membra che tanto trascuriamo e tanto impieghiamo in maniera sconveniente.
Andai è azione, movimento, moto, non caso, fato, destino anche se tutto potrebbe essere dipeso da loro.
Andai è vita.
Nei boschi è per me la meta che ognuno di noi ha. Ognuno ha il suo bosco, il suo rifugio, il suo mondo, non tanto quello in cui vive ma quello in cui vorrebbe vivere: il luogo dove la nostra persona acquisterebbe il mero perché della sua esistenza.
Il luogo che ognuno di noi cerca… molti lo trovano, chi prima, chi dopo, molti altri non ne hanno il tempo, molti ce l’ hanno ma lo sprecano o lo utilizzano in diversa maniera e quando, e se, si accorgono che il luogo in cui sono non corrisponde a quello in cui vorrebbero essere diviene tempo ormai tardo.
Per vivere diviene la meta della nostra meta; una volta raggiunto il nostro bosco capiamo che lì la nostra vita può essere chiamata tale e tutto quello che c’ era prima, i brutti ma anche i bei momenti, probabilmente appartenevano a dolce e malinconica esistenza.
Con saggezza… e mi viene da sorridere… Cosa è la saggezza? Ognuno di noi potrebbe definirla in modi del tutto differenti e la cosa che ci sorprenderebbe è che quello che uno considera saggio per l’ altro è l’ esatto opposto. Ma non è forse per ogni cosa che funziona così?
Ma forse, quello che Thoreau vuole dire è che una volta avviato il nostro cammino, una volta raggiunto il nostro bosco, una volta colto anche il margine più flebile della vita, lì conosceremo la saggezza e con lei vivremo, ma non solo; vivremo con profondità,con ardore, passione, sentimento, giungeremo a succhiare tutto il midollo della vita… Ogni cosa apparrà ai nostri occhi degna di essere vissuta perché sì! Ora siamo nel bosco bucolico di questa nostra esistenza e tutto è purezza, bene, emozione, commozione, amore, eccitazione, inebriazione, desiderio, brama, gelosia, cattiveria, dolore, odio…
No, no, no qualcosa non torna!
Se qualcuno mai ha raggiunto quel bosco che già mille volte ho citato, è riuscito a sostenere la vita? Quanto è durata la sua esistenza in quel luogo, come… come ha fatto a sbaragliare tutto ciò che non era vita?
Cosa significa sbaragliare tutto ciò che non era vita ?
Non è forse ogni singola cosa dell’ esistenza, vita?
Come faccio a sbaragliare tutto ciò che non è vita, se tutto è vita?
Nel bene e nel male.
Devo sbaragliare quindi anche la vita stessa?
Devo classificare la vita forse.
Classificandola potrei individuare tutto ciò che è vita e tutto ciò che non lo è.
Dolore non è vita potrei incominciare a scrivere… ma senza dolore non avrei conosciuto tante forme di amore che sono scaturite dal dolore stesso.
Allora anche amore non è vita?
Ma amore era stato appena aggiunto sotto VITA e non sotto NON VITA.
Come fare? E se…
No, non si può.
Finirei per avere una delle due colonne vuote.
Inevitabilmente.
Io so, posso immaginare cosa volevi esprimere Thoreau.
Ma come si fa a sbaragliare tutto ciò che non è vita?
È arduo giungere a poterlo sapere, anche solo immaginarlo, perché non è forse vero che quando siamo sicuri dell’ erroneità di un qualcosa poi scopriamo che qualcosa di sincero e puro lo caratterizzava o sveliamo qualche elemento nuovo in quel qualcosa che ci fa mutar idea senza inevitabilmente aver vacillato?
Quanto della nostra vita ci appartiene realmente?
Il cento su cento? L’ ottanta? Il sessantaquattro? Il trentuno? Il venti? Il dieci? Il nove? L’ otto? Il sette? Il sei? Il cinque? Il quattro? Il tre? Il due? L’ uno? Lo zero su cento?
La risposta a questa domanda ci fa capire che persone noi siamo; sicure, timide, volenterose, spaurite, coraggiose, gelide, fredde, amichevoli, stronze, persuasive, amiche, retoriche, impaurite, agghiaccianti, cattive, buone, belle, socievoli, stupide, brutte, splendenti, magnifiche, deplorevoli, gentili, egoiste… sino all’ infinito si potrebbe arrivare.
Ma qualunque cosa o persona noi siamo nessuno di noi vorrà in punto di morte, scoprire di non aver vissuto.
In vero la vita per me è un soffio di vento che forte si alza sopra ogni cosa, che fievole si posa sopra ogni cosa, che talvolta non trova prosieguo, che a volte si insidia in quel territorio sconnesso e liscio e arduo e semplice che è i passi della vita, per spingersi finché avrà molecole e atomi che lo conservano sopra di quel mare che chiamiamo esistenza.
Forse d’ altronde alcuno scoprirà di non aver vissuto perché tutti hanno avuto, hanno, avranno il loro grammo di vita anche se forse potremmo non accorgercene mai.

E voi che cosa ne pensate, chi ne ha voglia scriva e scriva i suoi pensieri per confrontarci, per riflettere, per scherzare e ridere, per sospirare e piangere delle migliaia di parole che ognuno di noi potrebbe dire della vita perché checché se ne dica le parole possono essere vaghe e anche inutili, sì mille parole inutili che non dicono nulla o una che ne dice molto di più…certo… ma senza parole non potremmo né leggere, né scrivere, né essere in parte uomini e ciò che esisterebbe da succhiare del midollo della vita sarebbe assai più scarso, io penso.
Grazie

mercoledì 9 febbraio 2011

Un principio

Voi amate il mare, capitano? - Si! L'amo! Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre; il suo respiro è puro e sano; è l'immenso deserto in cui l'uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé. Il mare non è altro che il veicolo di un'esistenza straordinaria e prodigiosa; non è che movimento e amore, è l'infinito vivente, come ha detto uno dei vostri poeti. Infatti, signor professore, la natura vi si manifesta con i suoi tre regni: minerale, vegetale, animale. Quest'ultimo vi è largamente rappresentato da quattro gruppi di zoofiti, da tre classi di articolati, da cinque classi di molluschi, da tre di vertebrati, dai mammiferi, dai rettili e dalle innumerevoli legioni di pesci, che contano oltre tredicimila specie, di cui un decimo soltanto appartiene all'acqua dolce. Il mare è il grande serbatoio della natura, è dal mare che il globo è, per così dire, incominciato, e chissà che non finisca in lui. Ivi è la calma suprema. Il mare non appartiene ai despoti. Alla sua superficie essi possono ancora esercitare diritti iniqui e battersi, divorarsi, recarvi tutti gli orrori della terra; ma trenta piedi sotto il suo livello, il loro potere cessa, la loro influenza si estingue, tutta la loro potenza svanisce! Ah! signore, vivete, vivete nel seno del mare! Qui soltanto è indipendenza, qui non riconosco padroni, qui sono libero!