lunedì 7 marzo 2011

Umano, troppo umano

Inizio questa riflessione partendo da un post di Umberto Galimberti che qui riporto per intero ma comunque visibile al link http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/e-se-cambiassimo-punto-di-vista
Il titolo del post è : "E se cambiassimo punto di vista?":
Scrive Platone nelle Leggi (903 c) “Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso. E, anche se tu non ti accorgi, non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica”.

Per me l’uomo va visto e va definito stando d’altra parte dell’universo; va collocato e idealmente confrontato con il tempo e la dimensione del cosmo! Sì, perché qualsiasi descrizione si voglia fare, a una distanza intermedia, non sarebbe mai idonea perché parziale, limitata, orba. Ancor meno è sensata una descrizione antropocentrica.  Che attendibilità, infatti, ha una descrizione del mondo fatta dal chiuso della propria casa?
Perciò, una volta arrivati d’altra parte, e solo allora, ci si potrà disporre finalmente a ricercare e a ritrovare quell’uomo perduto e lontano, quell’uomo sperso e ormai praticamente invisibile: “Egli sarà pure da qualche parte, in una direzione qualsiasi, forse nascosto dallo splendore di una stella nascente o da una qualche nube galattica...?”.
Mi ripeto: è da lì, e solo da lì, di fronte a quello spettacolo d’immane e maestosa grandezza, a quell’esplosione del “Tutto”, che si dovrà finalmente iniziare il ritorno. Solo allora l’uomo potrà finalmente vedersi nella sua reale dimensione e apprezzarsi come quello straordinario sussulto che, a suo modo, “brilla” al pari, se non più, di un’intera galassia. Solo allora potrà sinceramente amarsi senza presunzione e tracotanza sia nella sua estrema fragilità e finitezza che nella sua fantasmagorica avventura esistenziale. Solo dopo essersi “terapeuticamente” umiliato, marginalizzato e aver portato allo stremo ogni possibile rivoluzione copernicana, l’uomo potrà veramente rifondare la sua esistenza e riappropriarsi del suo destino.
Dice Kant: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.  E io, uomo d’oggi, molto (!) modestamente aggiungo che il cielo non è solo sopra di me perché io sono nel cielo. Noi siamo gocce di cielo nel cielo e il cielo è il nostro mare! È così che penso che partendo da questo profondissimo sentire, possa rinascere una nuova e potentissima morale più rispettosa dell’uomo e del suo meraviglioso mondo “celeste” e dell’uomo, in quanto “goccia”, nel mondo, in quanto “mare”.Carlo Mattei, Napoli
Quello che lei disegna è il senso dell’uomo sulla Terra, al didi tutte le rappresentazioni religiose che fanno dell’uomo il centro dell’universo. Tutti infatti conoscono quella frase orgogliosa di Pascal (Pensiero 264): “L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura, ma è una canna pensante. E anche quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l’universo non sa nulla”.  Nessuno, invece, si prende mai cura di ricordare quell’altra considerazione abbastanza angosciata sempre di Pascal (Pensiero 205): “Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento”.  È lo spavento, in una visione cosmica, dell’insignificanza dell’uomo sulla Terra, a cui Platone in parte allude nella frase che abbiamo citato in apertura e su cui torna Nietzsche in Verità e menzogna in senso extramorale: “In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza.  Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui”.
Se, non dico in ogni ora del giorno, ma almeno talvolta adottassimo questo punto di vista che relativizza il significato e l’importanza della vicenda umana nell’economia dell’universo, forse tanta violenza, tanta ansia di potere, tanta sopraffazione, che da sempre caratterizzano la storia dell’uomo, non penso che sparirebbero, ma certamente troverebbero una loro misura, e soprattutto si scoprirebbe forse l’amore, che è poi l’unica cosa che giustifica l’esistenza umana nel breve attimo in cui le è dato di vivere. Questo pensiero ci sfiora in occasione della morte di quelle persone, a noi vicine, che davano senso alla nostra vita. Custodiamo questo pensiero" Umberto Galimberti.

Ora questo punto di vista potremmo chiamarlo Eterocentrismo (contrapposto ad Antropocentrismo) oppure Post-Umanesimo ( in cui per umanesimo si intende quel pensiero che mette l'uomo al centro della vita).
Ma è veramente possibile un post-umanesimo, ovvero una nuova rivoluzione copernicana nel campo della filosofia che riporti alla dimensione di parzialità, possibilità, transitorietà il super-uomo che ha tanto trionfato negli ultimi secoli? 
E' veramente possibile fare un' operazione di ridimensionamento dell'importanza umana analoga a quella che è stata fatta con l'importanza di Dio? Così come il processo storico di secolarizzazione ha portato all'affermarsi delle società cosidette laiche sono pensabili società deumanizzate o meglio ricondotte a uno stato naturale in cui tutte le parti hanno il giusto peso?
Per rispondere a queste domande prendo in causa alcuni brani di un libro di Leonardo Sciascia : "Todo Modo",  in cui, sullo sfondo degli intrighi politici dell'Italia della prima repubblica, prende corpo il confronto tra un razionalista laico e un prete, Don Gaetano, campione della teologia cristiana.

Don Gaetano:"... il secolo diciannovesimo... sarà l'epoca, o almeno il principio dell'epoca più cristiana che il mondo può conoscere.... Tutto concorre, tutto ci aiuta; anche tutto ciò che [..]crediamo nemico. Ci aiuta la scienza, ci aiuta la sazietà; così come ancora, si capisce, ci aiutano l'ignoranza e la fame... Pensi: la scienza... l'abbiamo combattuta tanto!  E infine che scruti la cellula, l'atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto che divida che faccia esplodere che mandi l'uomo a passeggio sulla luna: che fa se non moltilicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all'universo?"
Laico:" Non mi pare che sia preso da questo spavento l'uomo di oggi. Al contrario."
Don Gaetano:"E' tanto indaffarato a spostare i confini, come dopo una guerra vinta, che ancora non lo avverte; ma le incrinature già ci sono, da cui si insinuerà lo spavento. E lo spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l'uomo avrà di se steso e degli altri... Ricorda? E sempre lo contraddico finchè non comprenda che è un mostro incompresibile; e poichè come non mai oggi Dio ci contraddice ..."
l'altro: " Noi fuggiamo da dio"
D.G.: " Non c'è fuga da Dio, non è possibile. L'esodo da Dio è un marcia verso Dio".

Prendo queste parole a modello per analizzare la critica di chi pensa di compiere un'operzione rivoluzionaria nel ribaltare la centralità dell'uomo. A mio parere, essa incorre nello stesso errore di chi crede di poter argomentare contro Dio e non si accorge che così facendo ne affrema la centralità e  la necessità di essere perlomeno pensato.
Proprio perchè l'A-teismo non avrebbe senso se venisse espresso dalla sola lettera iniziale A ma ha bisogno del restante teismo per esplicitarsi, allo stesso modo qualsiasi critica all'uomo non può prescindere dal fatto che è lo stesso uomo a criticarlo; osservato e osservatore coincidono. Ribaltare il punto di vista sull'uomo, come propone Galimberti, non è altro che pensare in negativo le forme di costruzione della realtà proprie della mente, conformate dal binomio inscindibile: natura e cultura.
Nel terzo millennio si assiste al proliferare di profezie su scenari catastrofici (la fine del mondo, i surriscaldamento) che sono ben al di là delle previsioni elaborate da climatologi, geologi e altre categorie di scienziati.
Come mai l'uomo bio-tecnologico con tutti i suoi mezzi si sente sul baratro? Forse le incrinature di cui parla Don Gaetano si fanno sentire? Il progresso sembra portarci a derive della società, dell'ambiente, della natura che non rispecchiano propriamente l'auspicato mondo del benessere ?
E così diventiamo tutti inquisitori ecologisti, sociaisti, no-global.... Ma non inventiamo niente, rovesciamo solamente tutto.

"L'uomo è misura di tutte le cose" diceva Protagora, oggi è vero più che mai.
In quest'ottica  il candore del Candide di Voltaire vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, azzarda Don Gaetano nel romanzo. Ereticamente ragionando si può concludere che Nietzsche e Sade non sono meno cristiani di Papa Ratzinger; lo sono, con parole diverse; così come, a parole, sono diversi il Sole e le stelle.
Non si può dire se l'uomo sia reltà o invenzione, si può solo dire che in qualunque forma, ontologica o fenomenica, postuliamo la sua esistenza in essa è intrinsecamente neccessario postulare l'esistenza dei suoi poli: Dio e la bestia.




L'unico Post-Umano possibile è quello senza Uomo