sabato 21 maggio 2022

abbandonare lo specchio

 

Ci sono notti che passano.

Cartoline di un viaggio sul fiume.

Tante città una dentro l’altra.

Persone Persone Persone


Cosa sento Cosa faccio Cosa penso

I miei occhi non li posso vedere

dovrei averne un altro paio

da portare fuori


Cristo di Dio Siete dei Bastardi

Soffrite cani

Che le vostre pene vi lascino senza fiato

Che i vostri idoli piangano sangue


Un onda che cresce che corre

fratelli miei non siete vinti

ancora liberi di solcare il mare

pur naufraghi non verrete ricordati




mercoledì 18 maggio 2022

LE ROSE DI MAGGIO


Piantare una rosa richiede cura, come piantare qualsiasi altra pianta. E ogni pianta richiede cura, estrema cura. Come la superficie del nostro corpo e la chimica delle nostre cellule.
Richiedono cura, continua cura.

Ma se ci facciamo intrattenere da altro, da tutto quell'altro che non è natura come facciamo a giungere a maggio?
Come si può sperare di vedere scorgere petali da quei bulbi. Se non siamo stati là a dare acqua, a dare luce, a correggere quello che la stessa natura ci chiede di correggere con tutte le indicazioni del caso, come si fa a vedere una rosa? A scorgerla per quello che è? Figlia di un processo intimo e misterioso.

Come si fa ad avere cura se noi stessi ne siamo carenti?

Immagino l'inizio del mondo con un umano in piena salute che sa badare a sé e a ciò che sta attorno. Allora sì, penserei che sia normale vedere quei cuori di di petali vigorosi e capaci di estendersi in tutta la loro bellezza.

Ma non è così. Potete raccontarmela come volete, ma non è così.
Siamo schegge impazzite che cercano di incastrarsi in qualche involucro di carne per riceverne calore e nutrimento. Siamo distorti nel nostro crescere strano.

Eppure capita che un fiore di loto nasca dalla palude più profonda e una rosa dalla fessura del cemento.
Due stereotipate immagini che però quanto hanno veramente da insegnarci?

Al di là di questi miracoli della natura, il resto richiede cura se vuole crescere, sorridere e morire con la  emme maiuscola.

E allora penso che la natura corregge. Se solo sappiamo accoglierla, ma accoglierla in pieno. Ci insegna il sudore, il sangue, le ferite, le fatiche, i sorrisi, i pianti, le delusioni, i successi.

E forse non bisogna essere per forza in piena salute per vedere crescere una rosa dalle proprie mani, ma quella deve essere la direzione.

Dopo che ci accorgiamo del petrolio che sostituisce l'ossigeno per i nostri polmoni, dobbiamo avere la forza di riacciuffare la molecola giusta, quella che natura ci ha dato.

Ma tutto va in fretta e la morte si porta via tutto. Solo che ora la morte non insegna ma divora. E' qualcosa che non conosciamo. E' uno scarafaggio pestato e scaraventato sotto il tappeto ben attenti a non far scorgere l'azione.

E come si fa ad arrivare a maggio, allora? Come si fa a godere di quel sole tra la pioggia?

La vita gioca con le nostre anime di pongo. Siamo così malleabili che ci inorridirebbe la pelle accorgercene.

E allora diventano le ferite ad occuparsi di altre ferite.

In un mondo dove siamo tutti più soli in mezzo alla folla, cerchiamo a  chi donare le nostre ferite perché ne abbiano cura. Ma anche per questo dobbiamo essere incredibilmente stabili e consci di che ferite porgiamo.

E' così che penso vengano su le rose oggi. E' così che penso si possa arrivare a maggio e sopravvivere a quell'oceano di vita che massicciamente la natura ci offre, come una sberla di chi vuole essere ascoltata.

E ci sarà ombra e rose divorate e infestate, ma ci saranno anche bulbi vitali e petali splendenti.

Dobbiamo capire la morte per intendere la vita. I più bravi lo fanno senza leggere nulla, ma seguendo le orme nel fango, e vivendo. Sono quelli con più rughe da non confondere con le smorfie, sono quelli con più calli da non confondere con mani rozze, sono quelli feriti che hanno imparato che da una ferita può uscire sangue.

E oggi ho parlato di rose. Solamente di rose.

Le stesse che regaliamo ai nostri amori, già belle e pronte nella vetrina di un fioraio.

Quante ferite ci sono dietro che si curano di quei fiori.

Quanti maggio devono passare per capire che le ferite si possono anche chiudere.

Ci adattiamo alla vita storcendoci quasi. Ma è questa stortura che ci deve insegnare la linearità. 

La direzione del sole.

Ecco, penso che maggio insegni questo. A capire meglio come si può accompagnare l'arco solare e a sentire l'odore inconfondibile di una rosa.


domenica 29 marzo 2020

respira (CAPITOLO α)

Tutto parte da qui.

Dal respiro.

Ogni cosa, parte da quello scambio. Scambio.

Scambio che è vita.

Manca l'aria. A Gabriel manca l'aria.
Manca uno scambio efficace, manca un po' di vita.

E le paure che si insidiano prima ancora che nuove, sono antiche, prima ancora che terrifiche sono naturali, prima ancora che definitive sono iniziate.

E Gabriel regola il suo respiro.
Lo parcellizza per averne riserva e per conoscerne la disponibilità deve riscoprirla, meditare.

E' testimone di qualcosa che passerà. Che va al di là di lui e di tutto ciò che lo circonda, di tutti coloro che stanno attorno, vicini o lontano.
Eppure ne è parte. Quel contorno dell'esistere, esiste anche per loro.

Le maschere ora abbisognano di altre maschere.
L'ossigeno diminuisce, se prima per convenzione anomala ora per biologia che aggredisce.

E il pensiero va, va a chi è in primissima linea.
Prima linea in sale umane fatte di gas, metalli, plastiche, tessuti e uomini.
Mai prima d'ora la loro sostanza è così chiara.
Uomini. Che giacciono, che reagiscono, che lasciano.

E attorno la prima linea. La linea di chi con competenza o meno assiste.
Ma non è una guerra.

Non ci sono soldati, se non per le strade. Non necessitano di polvere da sparo, ma di penne e carta.
Non c'è fame. Cibo ce n'è e acqua anche.
Non ci sono confini da invadere, bensì da rispettare.

La guerra la fanno gli uomini.
Questa no, questa prende il nome di pandemia.
Quale ne sia la causa, la natura coadiuva, la natura toglie, la natura dà, la natura cura.

C'è fame d'aria. Aria... a r i a
Una parola che diventa nome.

E con quel nome, torna il respiro.
Può tornare a respirare Gabriel.

E' necessario respirare. Vitale per vivere e per raccontare. Per narrare ciò che ci siamo dimenticati.
Ciò che torna ad essere perché è sempre stato.

Ora Gabriel respira. Ascoltami, respira.
Tutti insieme. Respiriamo.

r e s p i r i a m o



domenica 15 marzo 2020

Ma sticazzi (CAPITOLO 1)

CAPITOLO 1 - Ma sticazzi

Ma... STICAZZI!
sticazzi, sticazzi, sTICAzzI sticazzi sticazzi SticaZZi sticazzi STIcazzi STIcaZZI sticazzziiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii strafottutissimicazziiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii.

Disobbedienza civile, senso civico, civismo ma STICAZZIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII!!!!

Parole che riempiono la bocca di Giofra come se non ci fosse un domani.
Le riempiono che i cazzo di denti del giudizio non trovano manco il posto per uscire.

E ste parole fanno più male di quella fottuta dentizione ritardata.

STICAZZI
è una parola che Giofra ha adottato dal vocabolario romano. Romanesco per l'esattezza.
significa STICAZZI, anche se accettato in talune situazioni come sticazzi ma mai sticazzi o 'sticazzi'.
No corsivi, no grassetti, no virgolette. Maiuscolo o minuscolo o a lettere alternate a random.
STICAZZI. semplice. preciso. punto.

E comunque Giofra c'aveva tanta roba dentro. Ma tanta. E quando dico tanta, porca puttana... tanta tanta.

Ma è necessario fare un po' d'ordine per capirci qualcosa ma no - sticazzi - (sì, tra due trattini va bene) quello che viene viene e se non capisci cazzi tuoi. leggi altro.
ti rispetto eh! ma non me ne frega un cazzo. perché a Giofra non fregava un cazzo in quel momento di tutto ciò che gli riempiva la bocca.
voleva vomitarlo, cazzo liberarsene ma no... teneva, teneva. Lui teneva.
Perché aveva imparato a voler poco bene al suo corpo e quindi teneva. E ci riusciva bene.

Sì, alle volte sembrava una cazzo di responsabilità potesse sfuggirgli dagli incisivi ma il cazzo... mica c'aveva lo stretto di Gibilterra di Giusi Ferreri. Non passava niente.
Ed ecco che dalla protesi dello zirconiodistaminchiachemavevacucciatoduestipendi sembrava che un pezzo di senso del dovere dovesse sfuggirgli come un pezzo di spinacio che stava lasciando la sua dimora post-prandiale.

Ma no. Niente. Tutto rimaneva dentro. Che poi... non era nemmeno così difficile ringoiarlo. Il senso del dovere di Giofra era un sensodeldovere tutt'attaccato, tutto un pezzo, come quei maccheroni che ti vanno giù e o ti strozzi o pugnetto al petto e bo... giù tutto.

E si ricominciava. La vita di ogni giorno.

Ma ora non era la vita di ogni giorno.
Oggi no.

Oggi c'era l'isolamento forzato e autofiduciario.
C'era la pandemia nel mondo.
C'era una roba strana che manco a Kubrick a pranzo ubriaco con Nolan sarebbe venuto loro in mente di creare.

Pandemia da Coronavirus.
Sì Coronavirus... e non sto parlando di un cazzo di pokemon.

E faceva malati e faceva morti. Troppo presto per sapere se tanti o pochi ma un po' ne faceva. In tutto il mondo.

Prima in Cina, poi nel resto dell'Asia, poi in Europa.

Vedi che un po' di ordine l'ho fatto comunque.

E in quella cazzo di pandemia che obbligava tutti a casa - tutti tranne che i sanitari e gli operai (come mai, come mai...) - Giofra stava quasi per vomitare e non contenere.
Cazzo, cazzo e cazzo.

Era un allarme rossoviolabordeaux, una fase 7 dell'OMS (thesedicks phase - in inglese è accettato il corsivo), un cazzo di allarme DEFCON 1+ (colore bianco perla) dove l'attacco in corso non si sa manco da dove provenga.
Dal mondo e da dentro di lui.

Bè gente. Sticazzi.
Non ci sarebbe nulla da aggiungere.
Disagio power che se siete della generazione X o Y e non l'avete ancora vissuto, vi beccherà prima o dopo. Ma mica perché qualcuno ve la mandi. E' un po' come la pandemia, quando arriva arriva.
E quando arriva cosa dice l'OMS? Who? L'OMS cazzo! L'OMS. Bisogna sapere cosa è l'OMS.
Cosa dice? Minimizzare l'impatto della pandemia.

E sticazzi ragazzi. Potrei minimizzarlo fermandomi qui. Ma no.
Le danze si sono aperte e so Giofra sarebbe felice di condividere un po'.
Quindi state pronti, perché è tempo di descrivere ogni pezzo di vomito di quel fottuto Giovanni Francesco di circa trent'anni che vagava sul marciapiede, una mano alla pancia e l'altra che creava cerchi magici nell'aria in segno di aiuto.

Non riusciva a mettersi la mano alla bocca ma non era per le restrizioni del governo.
No... Era perché stava uscendo tutto, e nulla sarebbe stato come prima.

sabato 23 marzo 2019

VIAGGIO

Torna il tempo del viaggio, di viaggiare.
E ti lascia dietro e dentro sensazioni che hanno a che fare con la vita. Danno l’idea di un futuro che vuoi, non vorresti, vuoi, con ambizione.

Momenti di vita.
Tiepidi risaltano non come nuovi, ma ridestati da un delicato letargo che li conservava.

E così il viaggio ripercorre le tappe in anfratti che si riaccendono di luce, dopo lunga abitudine della tenebra.
Non importa il dettaglio della metà, né il ‘con chi’, né il ‘per come’.
Discorrerò con l’idea che ogni viaggio ha qualcosa di comune e che quanto verrà menzionato, seppur diverso bella forma, rimane intelligibile nella sostanza.

Le tappe di cui parlo hanno a che fare con te stesso, con l’altro che ti accompagna e con l’altro che ascolta il tuo ritornare a continuare. Con il mondo che sei e che ti circonda.

Prima tappa: il decollo.
Sollevarsi da terra non rappresenta solo l’atto meccanico e fisico di cui i più hanno completa ignoranza che porta un mezzo a tagliare l’etere.
Rappresenta il nostro costante rapporto con l’ignoranza; un rapporto indiretto che c’è, comunque.
Quel sollevarsi è prendere quota, in tutti i sensi.
Lo stacco del carrello dal suolo è l’idea di possibilità; possibilità che va oltre quella quotidiana idea mortale di morte. Possibilità che si può volare. Volare veramente, senza perdersi.

Seconda tappa: l’atterraggio.
Non è solo l’aereo a scendere a terra, con più o meno delicatezza.
È il tuo corpo che si assesta a quel viaggio, organizzato o meno, e alle persone con cui, oltre ad averlo già intrapreso, lo intraprenderai (quel viaggio). A volte diverse, a volte le stesse (le persone)..
Assestamento sulla crosta terrestre. Ci sei perché ci sei, non puoi essere altrove.

Terza tappa: il motore e il cuore, ma anche la pancia.
Via. Prende vita. La mattina e la sera, la notte e l’alba successiva. Lo fa senza aspettarti troppo. Ti ricorda che sei essenziale, ma non per forza importante. Quello spetta poi a te.
E dentro le giornate c’è il moto. Vitruvio, e ancor di più Leonardo, suggerisce quel rapporto apparentemente spigoloso ma geometricamente fluido dell’uomo nell’ambiente, naturale e umano.
Connessioni della struttura con la struttura con il resto.

Quarta tappa: la conoscenza.
Gradualmente i flussi entrano. Non li guardi solo imbambolato come qualcosa di estraneo.
Passi dal sentirti pieno del troppo a vuoto del peso che ti circonda. Ne fai parte, e te ne rallegri.
La relazione si attiva ad un livello maggiore, entra nel mondo della conoscenza. Fai parte di quella cosa e la cosa si accorge di te.
Se c’è dialogo c’è armonia.

Quinta tappa: pulsione. Pancia, ma anche cuore.
Batte il corpo come il suono incessante della città. 
Batte e vorresti il rintocco desse amplificazione sempre maggiore; vorresti esserne domatore e direttore. Tra le pieghe della realtà, e forse della verità umana, ti confronti con gli acciacchi della mortalità e sebbene strida ti strappa un sorriso. Timido.
Torna il cuore nel suo essere pompa e l’intestino nel suo essere crocevia di autostrade esistenziali e ti ricordi servano a qualcosa, oltre che a farli vedere al cardiologo e al gastroenterologo.
Pompi, batti, probabilmente scalpiti. Esito nullo o ebbro poco importa. Dentro sei pulsione: il viaggio te lo ha ricordato, se hai bisogno di ricordarlo.

Sesta tappa: velocità.
Pienezza del vivere caschi a volte nella fretta. 
Ma al di là di ciò, tutto è veloce.
Chi non lo è nei passi, lo è nel comunicare in quel mezzo in cui pare che ogni buco possa rappresentare un baratro. 
Connessione continua, a destra a sinistra, sopra e sotto e in mezzo, attraverso.
C’è chi parla di iperuomini. Se dotati del mezzo siamo iperuomini.

Settima tappa: consapevolezza.
Maturare la percezione, dialogare con l’esperienza. Dare presenza al tuo essere. 
Ditemi se è poco.
Probabilmente è tutto.

Ottava tappa: la strada e il colore.
La condivisione del colore di ciò che hai vissuto pare dare sfumatura al tuo atto presente. Percepisci di essere un crine di pennello che si sposta su una tavolozza grande, tanto grande.
Tu sposti il colore, che è un colore, e ti colori e colori.
Componi strade, trattorie, sensi, forse si intravede perfino una direzione.


martedì 10 aprile 2018

Consapevolezza

Cinque anni.
Zeno torna a scrivere e parla di consapevolezza e del tempo.

Cinque anni possono essere veramente pochi eppure appaiono come un'entità secolare; conferma che il tempo è fatto della sua qualità essenziale ancora prima che della sua quantità fisica.
E al di là del tempo soggettivo che ogni persona vive, tra lacrime e gioie, penso che sono anni in cui il tempo sociale ha vissuto repentini cambiamenti.

Molti sono gli eventi sensibili alla coscienza sociale occidentale; le altri parti del mondo avranno discusso e riportato altre notizie; più grandi, più piccole. Le loro, le nostre, quelle di tutti.

E Facebook e WhatsApp, meno di vent'anni il primo e meno di dieci il secondo, hanno invaso il mondo e la vita della persone. L'hanno fatto al di là di avere l'applicazione o meno sul proprio cellulare. L'hanno fatto, l'abbiamo fatto.
Ovviamente si fa riferimento a quel mondo e quelle persone che qui leggono.

In tutto questo che fine ha fatto la consapevolezza?
Delle persone, delle cose.

Il presente post ha lo scopo di suggerire consapevolezza.
Non parole, non opinioni, nessun dogma, nessuna scienza.

Si parte da qui: consapevolezza.

C'è ancora spazio per poter avere consapevolezza?
Penso di sì, se si ricomincia a camminare.

ZVS

mercoledì 24 luglio 2013

Control

- di Anton Corbijn (2007)


Questo film ripercorre le vicende dei Joy Division, band musicale del genere post-punk che si esprime sulla scena Inglese di fine anni ’80. In verità, il film si focalizza sulla storia personale del cantante di questo gruppo, Ian Kevin Curtis. La sua vita e la sua arte sono un tutt’uno, la musica è un momento espressivo liberatorio e angosciante allo stesso tempo, perché solo lassù sul palco egli vive e descrive la sua esperienza.

Il forte interesse che suscita questo film deriva dalla complessità che riesce ad intrappolare sulla pellicola. Complessità che si cerca di racchiudere in una sola parola “Control,” la quale deriva da una delle canzoni più note “ She lost control”, scritta da Ian dopo aver assistito sgomento ad una giovane ragazza in preda alle convulsioni causate dall’epilessia, la stessa malattia che affligge il cantante.

La crisi epilettica è un evento clinico transitorio, dovuto a un'improvvisa alterazione dello stato di equilibrio delle membrane neuronali che, attraverso un meccanismo di depolarizzazione, determina una scarica improvvisa, ipersincrona di una popolazione di neuroni. Un attacco epilettico con convulsioni di tutto il corpo è anche detto Grande Male e si distingue da un attacco con sola manifestazione di “assenza” detto Piccolo Male.

In “Disorder” così, Ian Curtis, descrive l’esperienza di una crisi epilettica:

It's getting faster, moving faster now, it's getting out of hand, 

On the tenth floor, down the back stairs, it's a no man's land,
Lights are flashing, cars are crashing, getting frequent now,
I've got the spirit, lose the feeling, let it out somehow

“Sta diventando più veloce, adesso si muove più velocemente,
sta scappando di mano. Al decimo piano, giù per le scale di servizio, è una terra di nessuno.
Le luci stanno abbagliando, le macchine si stanno scontrando, sempre più spesso ora.
Ho raggiunto lo spirito, ho perso le sensazioni, uscite in qualche modo”


Perdere il controllo dunque e cercare di riconquistarlo, rimanendo storditi, impotenti e poi frammentati. Questa sembra essere la natura soggiacente tanto all’esperienza della malattia epilettico-convulsiva quanto alla sua vita, le canzoni descrivono entrambe con le stesse parole che si possono leggere in modo diverso.

Riprendendo un’immagine famosa di Albert Einstein “La vita è come una bicicletta, se vuoi stare in equilibrio devi andare avanti” si può spiegare il concetto di omeostasi, ovvero quell’equilibrio particolare basato non sulla staticità ma sulla dinamicità. Uno scambio continuo tra l’uomo e l’ambiente, tra gli stimoli che ci investono e il controllo del corpo per andare loro incontro. Se questo scambio continuo si sbilancia, e ciò può avvenire sia al livello fisico che a quello psichico, le oscillazioni si fanno sempre più forti fino a fare perdere la sincronia e uccidere il sistema. Così ogni morte può essere descritta come una perdita dell’omeostasi che l’individuo manteneva con il suo ambiente.

Immaginate di pedalare su una bicicletta in una strada ampia, riuscirete ad andare dritti abbastanza tranquillamente. Immaginate ora che la strada si restringa fino ad  una piccola striscia d’asfalto su cui correre e il baratro a destra e a sinistra, le oscillazioni del manubrio possono facilmente farvi precipitare e la paura che ciò accada non può che facilitare la perdita del controllo.

Così Ian descrive la crisi epilettica di lei in “She lost control

“And walked upon the edge of no escape,
And laughed I've lost control.
She's lost control again. 
[…] I could live a little in a wider line,
When the change is gone, when the urge is gone, ..”

E camminò lungo l’orlo del non ritorno,
E rise: Ho perso il controllo.
Lei aveva perso il controllo di nuovo.
[…] Potrei vivere su una linea un poco più larga.
Quando il cambiamento è spacciato, quando l’impulso si è liberato…

Ma cos’è che restringe la  strada nella storia di Ian Curtis? Sono le pressioni sociali, insostenibili che lo portano all’isolamento rendendolo aggressivo verso gli altri e verso se stesso; sono le relazioni amorose che lo frammentano fra sensi di colpa e responsabilità, sono la musica stessa momento espressivo massimo e culmine della fragilità verso le crisi epilettiche.



“When routine bites hard,
And ambitions are low, 
And resentments ride high,
But emotions won't grow,
And we're changing our ways,
Taking different roads

Then love, love will tear us apart again.”

"Quando la routine morde forte,
e le ambizioni sono basse,
e i risentimenti cavalcano alti,
ma le emozioni non cresceranno più
e noi stiamo cambiando i nostri modi di essere,
prendendo strade diverse

Allora l’amore, l’amore ci dilanierà ancora."


Il film è grande in questo: non c’è certezza nell’identificare quali eventi causano altri eventi nella vicenda del protagonista, sebbene gli uni precedano temporalmente gli altri nel corso della vita. Così non sappiamo se sia la malattia neurologica o il malessere psicologico o il disagio sociale alla base di tutto il resto, come causa primaria. Vediamo invece spirali che si autoalimentano nel portare un improvviso quanto fulminante benessere nella prima parte e nella seconda parte conducendolo verso l’abisso, fatale.


Il passato è già parte del mio futuro... e il presente è fuori dal mio controllo”