sabato 7 gennaio 2012

Delete. Your. Certainty.

E' curioso come ogni certezza equivalga infine alla nostra volontà di crearla. La nostra realtà si esprime in un gomitolo di intenzioni che vogliono dare sicurezza a persone insicure quali siamo.
Il mondo si riduce ad essere suddiviso così in due tipologie di persone: coloro che non posseggono alcuna certezza e coloro che ne posseggono.
Ambedue riconducibili ad un tipo di genti: quello senza certezza perché invero la seconda opzione poco prima citata non è altro che uno status quo acquisito artificiosamente.
Non si possono avere certezze, nulla è certo. Tutto è dubbio. Viviamo per questo e di questo.

4 commenti:

  1. Sto seguendo il dibattito partito da questo articolo di michele ferraris, prof di filo di torino http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/08/08/il-ritorno-al-pensiero-forte.html

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  2. Ho scritto ciò che ho scritto come espressione di un disagio interiore. La concezione dell'inesistenza di una qualche certezza è espressa in chiave negativa e di triste consapevolezza della realtà che ci circonda, mi pare di ricordare. Con la lettura dell'articolo linkato si è riacceso quel bello di essere uomini.
    La concezione dell'inesistenza di una qualche certezza diventa impulso fondamentale per spingere la nostra volontà ad andare avanti, non più angosciosa convinzione dell'intorno.
    Con la nascita e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa i nostri sensi hanno incominciato molto lentamente ad ovattarsi sino a giungere ad una dimensione ebbra di certezze che solo sotto il velo manifesta la sua intrinseca essenza: una dimensione di certa incertezza.
    E se la prima reazione è quella di crollare storditi di fronte ad un muro su cui ci ancoravamo e che in realtà era di fatiscente fattezza, il passo successivo è quello di farsi invadere dalla seconda reazione che ci presenta l'incertezza come il più grande strumento di scoperta, conoscenza e vita.
    Grazie. ZenoVW

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  3. Sig. Zeno,
    Le risponderò con una storia.
    "Di fronte a un gruppo di scienziati che discutevano animatamente e, convinti della loro assoluta verità, non ascoltavano gli altri e li insultavano, uno dei saggi che non aveva preso parte alla discussione raccontò una storia: “In un tempo molto antico, un re indiano mandò a chiamare tutti coloro che erano nati ciechi e li raccolse in una piazza in cui fece portare un elefante. Poi chiamando a uno a uno i ciechi diceva loro: «Questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia? ». E uno diceva una caldaia, un altro un mantice, un ramo di un albero, un aratro, un granaio, le colonne di un tempio, una fune o un tappeto a seconda della parte dell’animale che gli era stata fatta toccare. Dopodiché si incontrarono e iniziarono a discutere animatamente, ognuno assolutamente convinto di ciò che aveva toccato. Il re vedendoli così convinti della loro sicurezza e litigiosi si divertiva un mondo ma alla fine decise di aiutarli a capire, e a due a due li invitava a toccare quello che aveva toccato l’altro e a chiedergli a cosa somigliasse. Così tutti dicevano quello che sosteneva l’altro e si invertivano i ruoli. Come se fosse stato un gioco li invitò a parlare tra di loro e alla fine tutti si formarono l’idea di come in realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era un mantice con un ramo di un albero nel mezzo e a lato un aratro con due tappeti sopra un granaio sostenuto da colonne e tirato da una fune di barca.» […] Quando ebbe finito disse: «Miei saggi discepoli, voi fate la stessa cosa. Non sapete ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, né ciò che è bene e ciò che è male e per questo litigate, vi accapigliate e vi insultate. Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l’altro contemporaneamente,la verità vi apparirebbe come una, anche se ha molte forme”
    -Libro degli Udana-

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